Le ricordo ancora le partenze deficienti. Tutti si partiva il primo di agosto, non c’erano santi! Quelli che partivano a luglio erano gente un po’ strana, a metà tra lo snob e il lazzarone, quelli di giugno, poi, non ne parliamo!
Se partivi a giugno o eri tanto ricco da avere una casa in montagna o al mare (e allora passavi le estati con i nonni) o eri così povero e malaticcio da finire in un terribile “soggiorno climatico” organizzato da qualche prete o qualche scuola. Dite quello che volete ma a me “soggiorno climatico” è sempre parso una cosa a metà tra un luogo di tortura e un ospedale. E quindi niente, quelli “normali” partivano ad agosto, il primo agosto di qualunque anno.
Giù le serrande, fuori i cartelli “Chiuso per ferie”, in tv pubblicità di Tassoni e cornetti e qualche servizio del telegiornale che parlava di arsura e città deserte (che poi sono gli stessi di adesso).
A casa i giorni prima della partenza era uno spettacolo preciso e immutabile che iniziava con i pranzi fatti in cantina. Oggi la chiamerebbero taverna, locale hobby o, meglio ancora, open space, ma io la chiamo ancora cantina. Era l’unico luogo fresco della casa e mamma preparava sul tavolone di legno dei pranzi che potessero dare a papà un minimo di ristoro dopo la mattinata in cantiere. Era una gara a riempire il frigorifero: non c’era acqua, coca, menta, birra che potesse idratare quella pelle bruciata dal sole e arsa dalla polvere. Erano “i tempi buoni per scoperchiare i tetti, tirare giù le facciate, sistemare le lattonerie” dicevano i clienti e i progettisti, ma le facce degli operai dopo giornate di sole a picco sulla schiena raccontavano un’altra storia.
Comunque luglio passava, lento e accecante… ma passava. La casa piano piano svuotava le dispense, sistemava le piante in giardino, impilava “cose da portare via”, come se non dovessimo far più ritorno in quella casa.
Ricordo bene il primo esodo sull’Alfetta blu. Papà ogni volta diceva “Alfetta duemila” e a me, che sono cresciuta guardando con ansia Spazio 1999, sembrava che quel dueeemiiiillaaaa fosse qualcosa di fantascientifico! Le tre bocchette dell’aria, tutte quelle spie sul cruscotto, il sedile dietro con il poggiabraccio, la radica e quel volante che per suonare il clacson usavi tutta la mano, a me sembrava giusto un gradino più giù dell’Enterprise.
Nel baule mamma riusciva a farci stare la casa, compresa la televisione, il ventilatore, la pentola del ragù, i giochi della spiaggia e, ovviamente, le valige. C’era un metodo, lei lo sapeva e non erano ammesse deroghe o obiezioni, la macchina si carica così! Papà tornava il 31 di luglio, trovava la casa pronta, la macchina carica, due bimbe pronte con la valigia di Barbie sul sedile dell’Alfetta e una moglie organizzata di borsa termica per il Viaggio: qualcosa di dolce e qualcosa di salato da mangiare in caso di nausea, bibite fresche e succhi di frutta per le piccole.
Ci si svegliava presto “così ci portiamo avanti mentre le bambine dormono” e in un limbo senza tempo e spazio, ti vestivi, tiravi su il letto, chiudevi e controllavi ogni imposta, rubinetto, contattore e via. Chiuso il cancello, papà al volante. Aveva la mia età di oggi mentre scrivo, forse qualche anno in meno. Era bellissimo.
Quando papà guidava io ero tranquilla. Non ho mai pensato che potesse accaderci qualcosa di brutto, ma ripercorrendo oggi quei viaggi senza cintura di sicurezza, airbag e abs e alle velocità che il motore Alfa ci regalava, un po’ mi vengono i brividi. Ma in quei primi di agosto di qualunque anno, in quell’auto un po’ spaziale, sopra quei sedili di tessuto vero e non di pelle finta, c’era tutto il mio mondo: mamma, papà, mia sorella, il mio orso Klin, i vestiti di Barbie, il televisore della cucina, il ventilatore e la pentola per il ragù.
Le regole erano chiare: tutta una tirata fino alle Gallerie, poi fermi al primo autogrill. Al ritorno, tutta una tirata fino a Brescia, poi autogrill. Mia sorella ed io non vedevamo l’ora di arrivare. Dormire non bastava a far passare quelle ore. Un po’ giocavamo, un po’ contavamo le macchine (vince chi ne vede di più con la targa straniera), un po’ ascoltavamo le cassette nel mangianastri (poi walkman, poi stereo).
Alla Torre di Bergamo eri davvero in vacanza, i capannoni delle fabbriche non c’erano più e potevi sentire la malinconia silenziosa di papà quando passava dalla sua terra bergamasca e poi lasciava il posto a quella di mamma, quando all’uscita di Verona sud leggevamo sul cartello “Legnago”. Poi basta. Via la malinconia, dentro la voglia di arrivare, attenzione alle Gallerie e tappa! E’ quasi vacanza. Il thermos, un giro dentro all’autogrill senza comprare niente “perché costano tanto e ti fregano” e i turni per andare in bagno, per non lasciare incustodita l’auto carica.
Proprio mentre ormai vedevi i cartelli che annunciavano Venezia e ti sentivi già lì all’ombrellone in quarta fila, sempre in quarta fila, iniziava il vero esodo. La transumanza. La mattina si faceva calda, non c’era il condizionatore, l’Alfa ruggiva il suo disappunto a ogni ripresa. Prima e stop. Prima, seconda, stop. Giù tutto il finestrino a fare la gara degli ultimi con i tedeschi in coda nel furgoncino in prima corsia. Quando iniziavi a vedere gente a motore spento e portiere aperte era la fine. Eri, inesorabilmente arrivato a Mestre. Tutti con la stessa idea di fare la partenza intelligente, quando fa fresco, tutti a pensare di portarsi avanti mentre le bambine dormono.
Un anno è rimasto nella storia. Legnano- Caorle, 376 Km in otto ore, quattro delle quali passate insieme agli altri intelligenti in coda a Mestre. Ricordo che a un certo punto papà abbassò il finestrino e si mise a parlare con il tizio dell’auto vicina. E rideva, parlava, sembrava lo conoscesse da un pezzo. E infatti lo conosceva! Era il garzone dell’ idraulico, anche lui intelligentemente in coda a Mestre. Perché insieme al televisore della cucina, alla pentola del ragù e al ventilatore, in quei primi di agosto di un anno qualunque ci si portava davvero via un po’ di casa e di paese che avresti trovato come vicino di ombrellone.
Quelli che andavano al mare erano tutti lì, tra il casello di Mestre e l’Adriatica, qualche ardito si spingeva fino a Roncobilaccio… in coda. Poi c’erano quelli che partivano per il Sud, ma erano una categoria a parte. Loro partivano di notte. Loro partivano! Ritrovarli a settembre non era cosa garantita, ma se tornavano portavano sempre un regalo di verdure e cose buone da mangiare. Esodo e contro esodo.
Oggi ho rivisto quell’Alfetta in un Museo della mia città e tra poco sarà di nuovo il primo agosto di un anno qualunque. Viaggerò su quell’autostrada partendo in un orario intelligente, viaggiando su un’auto sicura nella mia vita sicura, ripercorrerò col pensiero le tappe e mezze tappe che da sempre scandiscono il Viaggio, sul sedile dietro dormirà mio figlio, avrò una borsa termica che nemmeno aprirò, perché 376 Km li faccio in una tirata, perché quelle Gallerie, sono poco più di un sottopasso, perché a Mestre non c’è più un casello, ma un passante intelligente. Ma sempre e per sempre, penserò a quell’Alfetta spaziale, carica di tutto il mio mondo e pensando a quanto “bagaglio” ho perso per strada, mi sentirò un po’ deficiente, viaggiando sulla mia auto intelligente.
Laura, giornalista e speaker, ha trovato l’ispirazione a bordo di una Alfetta 2000 blu