Carlo in archivio

Il mio papà ha la Giulia

20 maggio, 2024

“Sono davvero contenta della nascita di questa nuova collaborazione. Perchè penso che il nostro archivio sia un incredibile patrimonio da condividere e che lo si possa fare attraverso gli occhi di chi, come me, adora frugare tra manuali, foto, depliant, vecchie riviste, appunti e documenti di ogni tipo. Sono oggetti anche di oltre 60 anni, che ancora sono in grado di ispirarci in un viaggio nel tempo e nello spazio, che ci mettono di fronte ai nostri ricordi, alle nostre personali storie, scoprendo che in realtà sono storie di tutti.

Grazie Carlo, torna spesso nel nostro Cozzi.LAB!” Elisabetta Cozzi

“Il mio papà ha la Giulia” 

Il primo articolo della nuova Rubrica “Carlo in archivio”

di Carlo Di Giusto

Dirvi che me la ricordo sarebbe una bugia, ma è un fatto che la Giulia 1300 TI Biancospino model year 1968 o ’69, non saprei, di Mario, mio padre, sia stata la prima Alfa Romeo della mia vita (ma non l’ultima, per fortuna). Le cronache familiari riportano che fu mia madre a desiderarla, a sceglierla, a pretenderla: ha sempre avuto un gran gusto in fatto di auto. E che fu proprio dal sedile posteriore dell’Alfa di famiglia che mi liberai una volta per tutte dal ciuccio, gettandolo dal finestrino… avrò avuto due anni o poco più e non sapevo cosa stavo facendo. Era il 1970, un altro tempo, un altro mondo. A ogni modo, Mario non la volle tenere a lungo quella macchina, non era un tipo da Alfa Romeo, e così la Giulia 1300 TI non ebbe neppure il tempo di installarsi nella mia memoria, il ché spiega perché non mi sia mai appropriato del tutto della nostalgia di quell’Alfa bianca targata Udine. Non abbastanza da indurmi il desiderio di possederne una, quantomeno. Ma ora, cinquant’anni e passa dopo, sono curioso, accidenti se sono curioso di saperne qualcosa di più.

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Il Museo Fratelli Cozzi una Giulia 1300 TI vera non ce l’ha (e se ce l’ha, non l’ho mai vista). A pensarci bene, non è frequente vederne una neppure nei millemila eventi che mi tengono impegnato nei fine settimana della bella stagione. Sono andato a cercarle persino sui marketplace: possibile che ne siano rimaste così poche? Eppure, la “milletré” era la cilindrata d’elezione dell’impiegato che ce l’aveva fatta, della middleclass degli anni Settanta, di quelli che due lire l’avevano messe da parte. Che fine avranno mai fatto (le Giulia 1300 intendo)? Non ne ho idea, ma sospetto che negli anni Novanta, coi primi incentivi, più di qualche esemplare sia finito dal rutamat, come lo chiamano da queste parti. Amen, ce ne faremo una ragione. Alla fine, Elisabetta se n’è uscita con un “Guarda che in archivio abbiamo tantissimo materiale sulla Giulia 1300: vai a dare un’occhiata”. Per un drogato di storia dell’automobile tipo me, avere il permesso di varcare la soglia dell’archivio è come invitare un’oca a bere.

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Di solito, sappiamo tutto di un’auto da quando viene messa in vendita in poi; di quello che succede prima, invece, si sa poco o niente e di quel poco (o di quel niente) non ci sono così tanti riscontri. Della Giulia 1300, invece, il buon Pietro Cozzi ha conservato tutto: dalle informazioni preliminari riservate ai concessionari ai fogli di servizio del post-vendita. Scopro così che l’indottrinamento dei venditori avveniva sulla base di specifici aspetti che allora erano decisivi per guidare il processo d’acquisto: robustezza, velocità, sicurezza, ripresa, potenza, peso e per ultimi i cosiddetti “dati economici”. Siccome la Giulia non era proprio a buon mercato, all’Alfa s’erano inventati il rapporto Lire/potenza. Seriamente, dico. Risultava così che la Giulia 1300 – 1.395.000 lire di listino franco filiale in Italia – costasse appena 15,674 lire per CV, contro i 22,425 di una Volkswagen 1500 (1.190.000 lire di listino)! Vorrei provare a farlo oggi questo confronto…

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La robustezza comunque stava al primo posto: che l’auto fosse affidabile se lo auguravano tutti in quegli anni e non era scontato che lo fosse. Poi veniva la velocità, e qui la Giulia 1300 con il suo motore “nato sportivo” sbaragliava la concorrenza immaginaria delle Vauxhall Victor, delle Peugeot 403/7, delle Ford Corsair De Luxe e delle Opel Rekord 1,5… ma chi le ha mai viste, dai. In terza posizione la sicurezza, che si traduceva in grandi doti frenata, tenuta di strada, visibilità e maneggevolezza. Poi veniva la ripresa, notevole “anche a quelle velocità che per altre vetture rappresentano un limite”. Si arrivava dunque all’elogio della potenza (elevata, oggettivamente) e alla giustificazione del peso (non proprio una piuma coi suoi 1000 chilogrammi tondi tondi): “Nella Giulia 1300 il peso c’è, e c’è proprio dove costa di più e dove serve di più”. A un certo punto, trovo persino il termine “efficienza”: credevo fosse una parola adottata da poco nella comunicazione automotive, invece all’Alfa Romeo la usavano già nei riservatissimi documenti interni di quasi sessant’anni fa.

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Mi domando ancora se i venditori dovessero imparare a memoria tutte quelle informazioni o se potevano di tanto in tanto dare una sbirciatina di nascosto, mentre si prodigavano a snocciolare di fronte ai clienti i pregi della Giulia e i difetti delle altre… Nulla sembrava essere lasciato al caso, neppure gli ordini dei generi di conforto per le presentazioni delle novità in “commissionaria”. Un appunto scritto a penna spiega bene il tenore di questi eventi: bicchieri numero 200; poi Bitter Campari, Punt e Mes, Aperol, Martini Dry, Rabarbaro Zucca, più patatine, olive, salatini e “mandorle salate”. Nel gennaio del 1966 erano partiti 600 inviti per mostrare ai legnanesi e alle autorità locali le novità Alfa Romeo per quell’anno. Persone da invitare: “giornalisti”, poi tutti gli altri (i bei tempi andati, oggi siamo i primi a essere depennati). Oltre agli alcolici, gli avventori del temporary bar Cozzi accanto ai salatini trovavano anche il listino… salatino: l’Alfa Romeo più costosa era la 2600 SZ carrozzata da Zagato, 3.970.000 lire, praticamente come tre Giulia 1300 messe assieme. Persino la Giulia TZ costava meno… Ah, se solo avessi la macchina del tempo!

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Intanto, dagli scaffali dell’archivio escono diverse edizioni dei libretti di uso e manutenzione, brochure, depliant, documenti inediti, corrispondenza interna, cataloghi delle parti di ricambio aggiornati a mano con una grafia d’altri tempi, impeccabile e chiara; poi pacchi di fotografie in bianco e nero, un modellino impolverato e i copritarga con il nome del modello, “1300 TI”. In un raccoglitore sono conservati i fogli informazione della Direzione Assistenza dell’Alfa Romeo: spiegano nel dettaglio come eliminare i difetti via via che i clienti li segnalano, se li segnalano (ecco, se trovate un pannello di poliestere nella porta, appiccicato al rivestimento, sappiate che è tutto ok).

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Elisabetta, che aveva ascoltato la storia della Giulia di mio padre, mi porge un volumetto che raccoglie qualche numero de “Il Quadrifoglio”, una rivista per soli Alfisti tutt’altro che banale o, peggio, adulatoria. A pagina 49 del numero di ottobre 1969 c’è un pezzo intitolato “Il mio papà ha la Giulia” ed firmato da Luca Goldoni, uno che le auto le amava, le capiva, soprattutto le sapeva raccontare: “Perché ti piace la Giulia? Perché sull’autostrada non ci passa nessuno. Perché ha un muso simpatico, con gli occhi furbi. Perché ha i vetri inclinati come gli aeroplani. Perché fa un rumore da macchina da corsa. […] Perché sul contachilometri c’è scritto 200. Perché ha il quadrifoglio e ce l’ho anch’io sulla mia bicicletta, guarda che ripresa che ho. […] Ogni tanto gli sguardi dei ragazzini s’incrociano nel sorpasso; un attimo, ma è in quell’attimo che si può cogliere l’essenza del rapporto Alfa-bambini negli anni Sessanta: il mito che diventa Giulia, o quanto meno, voglia di Giulia (solo che il padre si decida, cominciando almeno con una milletré tiì), la favola della macchina rossa che diventa scampagnata domenicale. Le Alfa piacciono ai bambini perché, anche se sono bianche, blu o giallo uovo, sull’autostrada diventano tutte rosse”. Trattengo a stento un’emozione: anche il mio papà aveva la Giulia.

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Tutte le foto sono di Carlo Di Giusto