Questa storia comincia in una galassia lontana, tanti anni fa. Nel 1973 mio padre comprò la seconda Alfa Romeo della sua vita (la prima era stata una Giulietta TI nel ‘63), l’Alfetta berlina prima serie. Bianca, lo scudo stretto, i quattro fari e i tre “baffi” cromati, l’Alfetta sarebbe passata alla storia ed alla leggenda familiare non soltanto per la sua velocità, potenza (“Aveva 140 cavalli Sae, ci potevo scalare i muri lisci a 140 all’ora e facevo la salita di Bagnara a quanto volevo io”), eleganza, coraggio; ma anche per i suoi difetti che rendevano e rendono ancora un’Alfa Romeo quasi umana (“L’abitacolo era un budello, le Alfa sempre così sono state. Ma aveva un bagagliaio enorme. Dopo sei mesi era spuntata già la ruggine, avessero fatto bene la cataforesi me la sarei tenuta”). E per un’inattesa attitudine al salvataggio di vite umane.
Era la primavera del 1975, 42 anni fa. A quel tempo per raggiungere Bagheria, il suo paese, mio padre aveva un itinerario obbligato: A3 fino a Villa San Giovanni (“45 minuti andando piano”), traghetto, A18 da Messina a Catania (“Ci mettevo più o meno di tre quarti d’ora, a quel tempo l’asfalto era liscio come un biliardo e non c’era nessuno. Non c’erano tante macchine veloci come l’Alfetta”). E poi la grande autostrada interna della Sicilia, allora vicina al completamento: l’A19 Palermo-Catania.
Quel giorno l’Alfetta stava viaggiando sui 120 nella piana di Catania, direzione Palermo. Qui l’autostrada è grandiosa: le carreggiate sono separate tra loro da uno spazio molto ampio riempito di pietrisco, sembra di essere in America e invece alle spalle, nel retrovisore, c’è sempre la sagoma inconfondibile dell’Etna impennacchiato in mezzo agli aranceti.
“alle spalle, nel retrovisore, c’è sempre la sagoma inconfondibile dell’Etna impennacchiato in mezzo agli aranceti.”
Ordinaria routine, dunque, per la nostra Alfa: il Bialbero girava come un orologio (“Le potevi regolare la catena come nelle macchine di Formula 1, precisa al decimo di millimetro”), l’architettura transaxle e il ponte De Dion garantivano curve neutre e ben pennellate, la radio after market, una Grundig molto potente e capace di captare anche le onde corte (“Ci sentivo la BBC e la Voice of America senza problemi quando viaggiavo di notte”), faceva da sottofondo. Il deflettore lato guida, come sempre, era leggermente aperto a far ventilare l’abitacolo nei primi caldi che solo in Sicilia sanno essere così piacevoli. Le mani posate sul volante in legno alle 10.15, retaggio della 1100/103 che era stata la sua prima auto (si tenevano alle 10.15 per manovrare il cambio al volante), mio padre sorvegliava la strada da dietro il parabrezza.
Una Fiat 124 sul suo cammino poco prima di una curva cieca: mio padre alzò la freccia a sinistra, sfanalò e sorpassò all’inizio della curva, che si aprì come sempre lenta e menzognera. E al centro della curva la cosa accadde.
Un Fiat 682 col rimorchio fermo nella corsia di sorpasso. “Nella corsia di sorpasso? Ma sei sicuro?” “E sono sicuro sì, mica c’eri tu. Com’è che quel bestione fosse fermo là in mezzo non l’ho mai capito, ma c’era”. Pausa. Poi: “Quel giorno dovevo morire e sicuramente con un’altra auto sarei morto, ma io avevo l’Alfetta tra le mani e l’Alfetta era una Formula 1 camuffata da auto normale”. “E tu allora che hai fatto?” “Ho piantato i freni a terra e l’Alfetta si è fermata a tre centimetri dal paraurti dell’82”. Sissignori: pronti al comando del pedale, le pinze dei quattro freni a disco strinsero i dischi e bloccarono le ruote. L’Alfetta morse l’asfalto in una frenata da tutto per tutto, tutto contro tutto mentre il tempo si annullava: scivolò in avanti stridendo nel fumo della frenata, ma non si scompose e riuscì rabbiosamente a fermarsi senza danno a se stessa, a cose o persone. Ce la fece, sissignori che ce la fece: e si bloccò a pochi centimetri dalla possibile fine di questa storia.
Tutto, all’improvviso, tacque: nell’alzare il piede sinistro dal pedale della frizione il motore si spense. Furono attimi interminabili, ma poi ancora una volta lo spirito spavaldo di mio padre venne fuori e lo riprese: “E dopo che hai visto la morte in faccia, che hai fatto?” “E che dovevo fare? Calai ‘u vitru, ci ‘nni dissi parulazzi tutti chiddi ca canuscìa, ci dissi: ‘Ma chi minchia faaaaaiii???’, tirai su u vitru, misi in moto, fici retromarcia e mi nni ivi” (Tirai giù il finestrino, gli dissi tutte le parolacce che sapevo, gli chiesi: “Ma che cacchio stai facendo?”, tirai su il finestrino, rimisi in moto, feci retromarcia e me ne andai). Tre centimetri soltanto avevano deciso una vita.
L’Alfetta, che ha accompagnato il formarsi di questa famiglia per 11 velocissimi anni e 198.000 onorati chilometri di percorrenza, ha salvato almeno tre vite. Mio padre, in questa vicenda; un signore rimasto malconcio in un incidente stradale che lui raccolse nel ‘76-’77 sulla statale prima di Cefalù (Pa) e portò d’urgenza all’ospedale; e io, nel 1980. Quando quasi quarant’anni dopo sono uscito dal San Raffaele dopo aver subito un’operazione per un cancro che ho combattuto e vinto, alla guida di un’altra Alfa Romeo di colore bianco (colore scelto apposta per la mia Giulietta che ho comprato qui da Cozzi) c’era ancora mio padre, quasi a chiudere un cerchio.
Gli altri potranno non capire il senso di questa storia, ma noi Alfisti sì. Perché un’Alfa Romeo non è una cosa con quattro ruote e un motore molto potente. Un’Alfa Romeo ha un’anima e porta con sé una storia: e se non ce le ha, le prende mettendo insieme un pezzetto da ognuna delle anime e storie di ognuno di noi che le scegliamo come compagne di viaggio. È anche per questo che non bisogna mai temere le curve cieche e le difficoltà che potrete incontrare su strada come nella vita: se butterete il cuore oltre l’ostacolo, ce la farete. Valeva per Tazio Nuvolari o Manuel Fangio: vale per le nostre piccole e grandi storie.
Questo è quanto mio padre e l’Alfa Romeo, dalle sue vetture ai suoi operai (prima di tutto loro) e ingegneri, hanno fatto per me. Questo è perché anch’io sono un Alfista.
Dedicato a loro, all’Alfetta e ai suoi quattro fari, con gratitudine ovunque siate ora.